Carissime amiche e colleghe Dermatologhe, è con grande piacere che raccolgo l’invito di Corinna Rigoni a parlarvi, in maniera piuttosto informale e discorsiva, delle mie esperienze presso l’H.E.W.O., che mi hanno molto arricchito, non solo  professionalmente, ma soprattutto dal punto di vista umano.

Che cosa è l’Hewo?

L’H.E.W.O. è una Organizzazione umanitaria, costituita in Etiopia con la dicitura “Hansenians’ Ethiopian Welfare Organization” (in Eritrea “Hansenians’ Eritrean Welfare Organization”), fondata nel 1970 dai coniugi Franca e Carlo Travaglino: una scelta di vita tra i “dimenticati” di Etiopia ed Eritrea. Tutto iniziò con la decisione di Carlo e Franca di trasferirsi in mezzo ad un gruppo di 36 malati di lebbra, soprattutto ragazzi e giovani, rastrellati dalla polizia sulle rive del mare dove arrivavano per cercare un po’ sollievo dal dolore causato dalla malattia.

Il primo obiettivo era quello di restituire dignità a chi ne era stato privato, perché povero o perché malato. Per questo Carlo e Franca si impegnarono a superare il mortificante metodo assistenziale e autoritario su cui si reggeva quella degradante struttura di ricovero per malati, sostituendolo con un metodo comunitario che responsabilizzava nei doveri, generava parità di diritti, reciprocità nei rapporti e gettava le basi per far fiorire la fratellanza.

L’H.E.W.O. opera nell’ area del corno d’Africa con servizi sanitari, educativi e psico-sociali, tutti svolti gratuitamente, anche grazie a donazioni di benefattori, a favore degli Hanseniani e loro familiari, ma, come anzidetto, anche di persone affette da altre malattie, o semplicemente appartenenti a fasce particolarmente disagiate della popolazione.

Attualmente in Etiopia esistono due insediamenti:

1. A Quihà, presso Makallè, nella Regione del Tigrai, ove esiste una struttura ospedaliera, con un programma di controllo diagnosi e cura della Lebbra, della TBC, dell’AIDS, di altre malattie infettive gravi; è inoltre attivo un servizio di chirurgia generale e di pediatria;

2. A Garbò, piccolo villaggio vicino Wolisso, nella Regione Oromia (sud Etiopia), insediamento costituito da ambulatorio attivo 24 ore su 24 con due infermieri locali, scuola materna ed elementare con due maestre locali che assicura anche un pasto quotidiano.

Dal 2015 il Governo Etiope ha scelto l’Ospedale di Quihà come Centro di Formazione per i giovani medici e infermieri

L’ospedale, unico nella provincia del Tigray, è specializzato nella cura di malati di lebbra, TBC, HIV-AIDS e di altre patologie infettive, con un reparto di pediatria, uno di chirurgia, una clinica dentistica e con un “Centro dei diritti”. Quest’ultimo è stato istituito per far conoscere e difendere i diritti, spesso violati o minacciati, dei bambini in età prescolare provenienti da famiglie economicamente e culturalmente povere.

Il 4 marzo 2017 è stato inaugurato il nuovo Centro Maternità. C’è chi ha avuto la fortuna di essere presente alla nascita del primo nato, cui è stato dato il nome, ovviamente, di Carlo.

Come è nella filosofia dell’H.E.W.O. accanto ai servizi di carattere sociale e sanitario si sono volute creare opportunità formative e di reinserimento per gli ex pazienti; quindi, a completamento delle attività dell’ospedale di Quihà, sono stati introdotti diversi laboratori e attività lavorative in campo agricolo, in campo alimentare e nello specifico della conservazione della frutta e della verdura, nella produzione della pasta e del pane.

Inoltre è stato realizzato un laboratorio-scuola di maglieria per la formazione socio-professionale dei giovani e per la produzione di capi di abbigliamento, il cui ricavato è destinato al sostentamento della Comunità. Tali attività, oltre ad offrire un’opportunità di reinserimento sociale per gli ammalati, rappresentano una forma di auto-sostentamento per la Comunità stessa.

UN TELAIO

Presso il centro è attiva anche una scuola materna che offre gratuitamente a bambini di famiglie povere istruzione, cure e 2 pasti al giorno.

I pasti sono preparati giornalmente dal personale presente in loco.

Queste strutture, che per gli standard occidentali sembrano piuttosto semplici e spartane,  in realtà in un contesto dove regnano la miseria e l’indigenza, sono un punto di riferimento sicuro e qualificato per i tanti malati che afferiscono giornalmente, spesso da posti lontani e con mezzi di fortuna. Nelle immagini che seguono potrete farvi un’idea di quello che c’è immediatamente al di fuori dell’ospedale.

Qui in alto e di seguito, scene di vita quotidiana all’interno del Centro.

Notare gli ornamenti fini ed eleganti di questa maestra.

Il dr. Buonaiuto, chirurgo, e la dr.ssa Romano, dermatologa, insieme a Franca, presenti in occasione di un mio precedente viaggio

In merito all’attività da me prestata presso l’Ospedale di Quihà: ho avuto modo di trattare, in stretta cooperazione con personale locale ed altri medici italiani miei compagni di viaggio, le patologie più varie, ma in particolare casi di lebbra, lue, TBC cutanea, infezioni fungine e batteriche. Periodicamente controllavo i bambini frequentanti la Scuola, con visite preventive per escludere la presenza di malattie infettivo/parassitarie.

A sinistra sono in compagnia del pediatra e …, a destra con le cuoche

I reparti di cura e degenza

Un’immagine complessiva dell’Ospedale visto dall’alto.

 Al rientro in Italia dopo un’esperienza all’Ospedale di Quihà, vissuta in un angolo di mondo poverissimo, in condizioni molto diverse rispetto a quelle che si impara a conoscere in Italia, si matura la consapevolezza che non è necessario cambiare il mondo per dare senso al proprio essere medico e donna, ma basta contribuire a cambiare la vita, anche di una sola persona. Ci si pone molti interrogativi, sul perché una persona debba vivere in condizioni per le quali non può realizzarsi, avere un’istruzione di livello o servizi sanitari, solo perché è nata nella parte sbagliata del mondo. Eppure, in quella terra martoriata dalla miseria, dalla fame, dalla siccità e dalle malattie, si scopre in se stessi una tranquillità nell’affrontare anche la più tragica delle situazioni. In quel breve periodo di lavoro, il senso di impotenza che sorprende al primo incontro con il Tigray, si tramuta nella fiducia che nel nostro piccolo si può invece fare molto, nella convinzione che alla fine basta cambiare la vita di una sola persona, di un solo paziente, perché il nostro fare abbia un significato. Si torna dalla missione con una maggiore predisposizione all’aiutare il prossimo; si cresce, personalmente e professionalmente. Le problematiche organizzative della struttura ospedaliera e le particolari condizioni dei pazienti in quella regione pongono sfide nuove ad un medico europeo, ed insegnano una modalità di lavoro diversa, più riflessiva. Le scelte in un ambiente del genere sono molto diverse rispetto a quelle che si fanno in Italia, mancano molti medicinali, le possibilità terapeutiche alternative alla chirurgia sono poche e le aspettative di vita inferiori a quelle europee. Cambia radicalmente la relazione con il paziente, il rapporto è più diretto, è più facile sentirsi vicino al malato in quanto uomo, mettersi nei suoi panni; ti prendi cura di lui in tutto e per tutto, non solo dell’aspetto medico, ma anche di ciò che accadrà dopo. L’Hewo, infatti, non si limita a curare il paziente in senso fisico, ma si occupa della sua vita, del suo lavoro, della famiglia, del come mantenersi dopo. Anche se stabilire una comunicazione con i pazienti non è facile a causa delle barriere linguistiche e culturali, alla fine il modo migliore di parlare è con lo sguardo; non vi nascondo che da allora questo è molto importante nei rapporti che stabilisco con tutti i pazienti.

A casa ho riportato non solo una nuova metodologia di lavoro, ma anche una diversa visione della vita e del lavoro, cominciando a vedere con altri occhi le cose che da noi si danno per scontate, a dargli un valore diverso. Noi leghiamo sempre la felicità ad una condizione economica, sociale, al tipo di lavoro. Nell’HEWO a Quiha ho visto persone felici, pur non avendo niente, e questo mi ha aperto gli occhi.

Nel accomiatarmi da voi tutte, non senza una punta di nostalgia, anzi di vero e proprio mal d’Africa, vi esorto ad esperienze di questo genere, che, vi assicuro, non dimenticherete mai più.

Un saluto affettuoso

Patrizia Forgione
Dermatologa, Napoli