Nostro malgrado, notiamo solo l’insolito, lo speciale, il miseramente eccezionale: è proprio il contrario che si dovrebbe fare.

Georges Perec, 1974

Come è noto ai più, Curzio Malaparte, intellettuale fine e scrittore superbo, protagonista della letteratura italiana dunque europea del secolo scorso, ma anche figura a dir poco ambigua, chiamava con affetto la sua bella villa a Capri: «casa come me»; a ragione, dacché egli stesso ha partecipato alla sua ideazione, fondata sul cruciale e imprescindibile progetto di Adalberto Libera.
Non posso fare altrettanto, visto che non sono stato io a progettare il mio appartamento, sito al penultimo piano di un edificio a quattro, aperto su tre lati prospicienti due strade, il terrapieno ferroviario, un piccolo giardino «a elle».
Passo molto del mio tempo in questo spazio a cui, dopo tanti anni, sono affezionato e che comunque mi rispecchia; quindi, a essere sincero, la situazione poco confortevole, per usare un eufemismo, in cui mi ritrovo non ha prodotto in me «un differente sguardo sullo spazio dell’abitazione e sugli spazi che da essa possiamo osservare». Tuttavia, è vero, avverto anch’io che in un modo o in un altro, «si delinea un’altra modalità dello stare chiusi in casa». Ogni tanto mi affaccio alla finestra prediletta, prospiciente oltre il giardino il terrapieno ferroviario, ma a differenza del fotografo L.B. Jefferies, protagonista nel film «La finestra sul cortile», non scopro alcun delitto; osservo, invece, che i «Frecciarossa» e gli «Italo» non ci sono più e mi devo accontentare, per i miei viaggi virtuali, dei «Trenord» e raramente di qualche «Tilo» (la mia età non permetterebbe avventure tipo beat con treni merci che continuano a viaggiare imperterriti.
Dopo i primi giorni, che avevo assunto un comportamento esemplare chiudendomi in casa, ho deciso di scendere nel piccolo giardino, in parte lastricato e usato quasi esclusivamente come parcheggio per le macchine. E qui, è vero, ho iniziato a guardare le cose con «occhi che vedono», osservando con una certa attenzione gli edifici adiacenti ma soprattutto le tre facciate «interne» della casa, costruita nel primo ventennio del secolo scorso, e il suo semplice partito architettonico, configurato seguendo i dettami della costruzione: pieno su pieno, vuoto su vuoto, corroborata dall’indispensabile decorazione (quella necessaria, a detta del Quatrèmere), che rende un edificio architettura.
Susseguendosi le giornate di clausura – e per non scordare la tecnica del camminare vero e proprio – ho iniziato a fare dopo pranzo il giro dell’isolato, avventurandomi recentemente anche verso altri due: inizio percorrendo il perimetro di tre isolati, dopo di due e concludo circumnavigando il mio. In queste passeggiate osservo con più attenzione i vari edifici, alcuni anche belli, alcuni anche di attività promiscue (commercio, servizi, residenza), con pochissime persone, visto l’orario, affacciate ai balconi o alle finestre. Anche per le strade c’è poca gente, un po’ di più sulle due vie principali, comunque in numero sufficiente per una sana distrazione e nel contempo per una altrettanto sana attenzione, certo allarmata, certo esagerata, ma comunque imprescindibile per ottenere l’indispensabile distanziamento (fisico, non sociale, ci ammoniscono i chierici del politically correct). Però in questa «passeggiata», contrariamente al protagonista dell’omonimo eccelso racconto di Robert Walser, non mi soffermo a salutare alcuno.
A dir il vero, non è la prima volta che percorro questi spazi urbani a piedi; ovviamente li ho girati innumerevoli volte in macchina. Però adesso avverto la presenza di qualcosa che evidentemente non è materiale, fisico, ma non per questo meno importante; si tratta di questa sensazione di liberazione costretta che misteriosamente rende anche la lettura del familiare spazio pubblico dell’isolato e dei suoi elementi architettonici, un po’ diversa: sicuramente più attenta e per questo penetrante, per certi versi enigmatica ma senza dubbio sorprendente.

Costantino Patestos
Architetto, Milano