Per un’antropologia nell’epoca del Coronavirus

“Noi siamo della stessa stoffa
di cui sono fatti i sogni,
e la nostra breve vita
è avvolta da un lungo sonno”

Shakespeare, La Tempesta, Atto IV, scena I

Ne scaturisce una sorta di puzzle filosofico, un mosaico esistenziale fatto di tessere che si combinano perfettamente tra loro in forza di una sorprendente logica interna.
Tutto prende il via dall’imprevedibile e devastante irruzione del Coronavirus nelle nostre vite: un’aggressione selvaggia non solo alla nostra razionalità, ma prima ancora alla nostra paticità.

1) Il tremendo aculeo del virus sui miei polmoni e dentro la mia carne mi ha per prima cosa ricordato la condizione di passività e dunque di vulnerabilità a cui ogni uomo è esposto nella sua situazione vitale.
È l’esperienza immediata ed angosciosa della FRAGILITÀ irrimediabile del nostro essere, la nostra PRECARIETÀ ontologica che demolisce impietosamente tutti i nostri falsi miti della forza fisica e della potenza tecnologica, il culto del corpo sempre giovane, garanzia di successo e fonte di facili guadagni.
Insomma, scopro d’un tratto che un microbo invisibile è in grado di distruggere secoli di antropocentrismo, di narcisismo antropocentrico con la boria di una sedicente onnipotenza ed onniscienza del genere umano. Invero ho anche scoperto che a tale potenza demitizzatrice ed antivitale, il nostro corpo reagisce furiosamente opponendo una spasmodica volontà di vivere – la “Wille zum Leben” di schopenhaueriana memoria –, un’energia che per la prima volta mi era stata rivelata dai testi del filosofo tedesco, ma che ora sentivo attraversare tutte le mie membra in uno sforzo “eroico” di riaffermazione del mio essere e di allontanamento dall’abisso del Nulla.

2) Mentre i primi giorni della malattia trascorrono nella dolorosa percezione della fragilità umana, nei giorni successivi lo scenario interiore muta profondamente: lo choc patico attiva l’intervento del logos, di una razionalità che avvia un processo sempre più profondo di INTERIORIZZAZIONE e di AUTOCONSAPEVOLIZZAZIONE: è l’incontro con il proprio io più autentico che pone domande sempre più urgenti, le grandi domande quali: “Perché è accaduto proprio a me?”, “Che senso ha tutto questo?”.

3) Attraverso questa discesa alle radici del mio essere, mi accorgo di arrivare a conoscere la mia AUTENTICITÀ, la mia vera essenza ossia quella POVERTÀ costitutiva che è, a ben vedere, la verità dell’umano, del mio esserci…
Sento così nascere in me il bisogno di essenzialità, di “cose” autentiche al di là delle convenzioni e della mera superficialità del mondo circostante. Mi riprometto così che, se mi sarà dato di vivere, di continuare a vivere, ricercherò soltanto l’ESSENZIALE, ossia l’autentico, liberandomi dalla gravitas mondana, dalla zavorra del mondo. Ed è in quei momenti che arrivo a comprendere appieno la massima di Plotino: “άφελε πάντα”, “Spogliati di tutto” ossia semplifica, essenzializza e nel raccoglimento troverai te stesso.

4) Mi accorgo tuttavia che quest’opera di “semplificazione”, che coincide con un’autentificazione della propria vita, richiede, come sua condizione imprescindibile, un atto di coraggio, quasi come nuotare contro corrente: la decisione di RALLENTARE i ritmi della propria esistenza.
Infatti, è solo nella silenziosa lentezza della propria vita che il nostro spirito può discernere e decidere con equilibrio e saggezza. La velocità del fare, la frenesia del vivere ci rendono estranei a noi stessi: l’esito inevitabile è l’auto-alienazione (cfr. Pascal e il “divertissement”).

5) Rallentare per DECIDERE, ma decidere cosa…?

A) Decidere in primis di VALORIZZARE ogni istante della propria esistenza, ogni gesto, ogni atto della nostra giornata, vivendo ogni attimo in pienezza per non disperdere la ricchezza dell’umano che è in noi.

B) Decidere di AFFRONTARE CON RESPONSABILITÀ, senza cioè scantonare attraverso comode vie di fuga, quell’impegnativa dualità di scelte o alternativa che ci troviamo continuamente innanzi: sguardo chiuso o sguardo aperto sul mondo e sugli altri, come mi hanno insegnato i comportamenti dei medici e degli infermieri da me conosciuti? Lo sguardo chiuso si occupa esclusivamente del nostro micro-io e, ignorando gli altri, finisce per impoverirlo sempre più; lo sguardo aperto, invece, proprio perché libero da barriere, riceve dagli altri e dal mondo luce ed energia per la crescita del nostro stesso io.

C) Decidere infine se, come sostiene qualcuno, “è tutto qui” oppure se c’è dell’ALTRO. Decidere, insomma, se l’orizzonte materiale, il mondo delle occupazioni e degli oggetti ci basta oppure se intendiamo assecondare quello slancio, che definirei “mistico”, talvolta irresistibile, che ci spinge oltre la limitazione, la transitorietà delle nostre occupazioni, dei nostri bisogni, dei nostri desideri verso qualcos’altro, quell’Altro che Leopardi chiama “Infinito”.
Resterà per me indimenticabile una singolare esperienza vissuta durante i giorni più drammatici al San Raffaele, un’esperienza che definirei “religiosa”. Di quei dieci giorni di terapia intensiva mi rimane soprattutto un’impressione, un’esperienza fonica, acustica… Io ero immerso in un buio profondo, totale, assoluto, rotto soltanto dal gorgogliare dell’acqua, quasi vi fosse, in quel luogo senza tempo in cui mi trovavo, una sorgente da cui zampillava acqua fresca, sempre nuova, la cui musica mi infondeva una grande serenità in mezzo a quella notte angosciosa.

Questo è il racconto del mio vissuto, una storia di grande sofferenza e angoscia, che mi piace concludere con le parole del poeta, le parole che sovente ripetevo dentro di me in quei giorni terribili:

“Ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto attaccato alla vita”

Ungaretti, Veglia

Daniele Bonelli
Docente di Filosofia, Piacenza