La prossemica è una disciplina semiologica introdotta dall’antropologo Edward Hall nel 1963 che si prefigge di studiare le distanze e le vicinanze nelle relazioni sociali in una prospettiva culturale e psicologica. Nella comunicazione interpersonale, Hall identifica 4 “zone” in cui lo spazio definisce la qualità affettiva della relazione.
La distanza intima tra 0 -45 cm, la distanza personale 45-120 cm per l’interazione tra amici, la distanza sociale da 1 a 5 m. per la comunicazione tra conoscenti o nella relazione tra insegnante e allievo e infine la distanza pubblica oltre i 4-5 m per le pubbliche relazioni. Con questa premessa è facile intuire che la pelle, organo di confine e limite del corpo rappresenta una zona di forte investimento affettivo, coinvolta anche nella relazione medico-paziente.
La vicinanza al corpo del malato è una costante del rapporto curante-malato che lo studente e poi il professionista imparano a maneggiare a partire dal corso universitario di semeiotica medica. Se il medico sa padroneggiare l’auscultazione, la palpazione, l’ispezione, la percussione e trae da queste attività informazioni visive, uditive, tattili e olfattive, lo specialista dermatologo necessita di un ulteriore prossimità al corpo del paziente. L’esplorazione della cute, delle mucose, del cuoio capelluto, la dermatoscopia, le numerose pratiche di chirurgia ed estetiche si svolgono in prevalenza a stretto contatto con il corpo del paziente.
Vicinanza e contatto nella relazione medico-paziente permettono una comunicazione affettiva che passa attraverso messaggi non verbali di aiuto, rassicurazione, comprensione, fiducia, speranza, necessari per stringere un patto di alleanza terapeutica, funzionale al buon esito dell’incontro e delle cure.
In un articolo del 2019 su Lancet, Richard Horton sostiene che l’esame clinico e il posto centrale del tatto in questa attività, promuovono la connessione fisica e mentale tra medico e paziente, generano fiducia, sicurezza, condivisione, veicolano l’idea di sopravvivenza e consiglia ai giovani medici di non trascurare l’importanza di un esame obiettivo ben fatto, in stretta vicinanza con il malato.
Tuttavia l’esame obiettivo tende a diventare, con il progredire della diagnostica per immagini, delle indagini strumentali, degli esami di laboratorio una pratica obsoleta che fa appello solo agli imperfetti sensi umani. Da qui la lamentela più ricorrente dei pazienti: “Ecco il medico non mi ha nemmeno visitato, non ha sollevato lo sguardo dal computer, ha continuato a scrivere”.
Con la pandemia Covid-19 queste difficoltà si sono accentuate, il Covid-2, scompaginando abitudini e procedure, ha amplificato la distanza e reso complicato il contatto, ci ha tuttavia indotto a riflettere su come ci poniamo nei confronti del paziente.
La prima cosa che ci ha insegnato la pandemia è stata la gestione della paura, che è arrivata dopo una breve fase di smarrimento. Le nostre certezze cedevano il passo all’ignoto e increduli assistevamo al bilancio quotidiano degli infetti e dei morti che i media ci mostravano. In questa fase, alcuni colleghi, abituati da sempre a una prossimità professionale consolidata, ma disarmante, iniziavano a diventare le vittime sacrificali di una prassi che mai avremo pensato di modificare. Molti di noi, diventati pazienti, sperimentavano il caleidoscopico repertorio di sintomi che il fantasioso virus proponeva, tutti ci apprestavamo ad affrontare una nuova modalità di contatto con il paziente, vigile e controllata, fatta di mascherine, guanti, camici monouso, tute, calzari, dove i gesti amplificano le emozioni del contatto ma i presidi di protezione celano i volti e le espressioni.
Con le mascherine la comunicazione talora risulta enigmatica mentre le emozioni da maneggiare sono quelle di sempre: rabbia, paura, diffidenza, speranza rassegnazione, fiducia.
Tra la paura del contagio, la necessità di visitare e entrare in contatto con il paziente e l’abitudine a una prassi consolidata nel tempo, a fine giornata facciamo un bilancio: abbiamo sempre tenuto i presidi di protezione in modo corretto? Sanificato a sufficienza? Arieggiato adeguatamente? Mantenuto la distanza giusta?
Nei primi mesi della pandemia, mentre cercavamo di capire come affrontare la nuova prossimità e le visite erano sospese, siamo stati subissati da richieste di diagnosi a distanza con immagini spedite sui nostri cellulari e in posta elettronica. Questa nuova prassi si fa sempre più strada con problemi legati alla qualità delle immagini, a possibili implicazioni di responsabilità professionale e medico-legali e difficoltà di attribuire un riconoscimento e un valore economico alla prestazione.
Con la telemedicina la dermatologia andrà sempre di più nella direzione di una pratica disincarnata? Quali scenari si prospettano nell’ipotesi di un protrarsi delle difficoltà di vicinanza e contatto? Dunque il problema del contagio è diventato il nuovo assillo dell’umanità e del medico che di questa è il garante della salute. Il contagio è talora anche un contagio emozionaleperché paura, ansia, confronto con la fragilità e il limite, vulnerabilità sono temi che circolano e ci coinvolgono in una inedita simmetria nel rapporto con il nostro paziente. Questa universalità dell’esperienza ha trovato un punto di contatto nei social, com’è il caso dei gruppi dedicati ai medici su facebook che hanno permesso lo scambio e la condivisione di informazioni e di esperienze, ma anche di timori, difficoltà, incertezze. Il dermatologo si trova poi a fronteggiare nuove tematiche: le diagnosi ritardate a causa della chiusura temporanea dei servizi, la gestione delle terapie con farmaci biologici nel nuovo assetto epidemico, delle fragilità e delle co-morbilità di molti pazienti dermatologici, l’inquadramento diagnostico e terapeutico delle dermatosi Covid correlate che offre interessanti spunti di riflessione sulla fisiopatologia della malattia.
Il Covid-2 ci costringe a fare i conti con le fragilità di una società che invecchia, imprimendo una accelerazione ai processi di senescenza. Prima dell’epidemia ci sentivamo immortali, i progressi della scienza e della medicina avrebbero senza dubbio generato un’umanità che sorpassando le aspettative temporali di vita davano speranza agli ultraottantenni. Consistenti, negli ultimi decenni, gli investimenti della ricerca per studiare e mitigare i processi di invecchiamento degli esseri viventi. Ora la pandemia sta spazzando via proprio la generazione che si affacciava a questa prospettiva, e per chi ha superato l’infezione, la percezione che il virus abbia depositato i segni del tempo anche sulla pelle, con un incremento dell’aging, è un fatto che possiamo rilevare tra i nostri pazienti e che potrà dare spunti di conoscenza e ricerca per il futuro della specialità.
Infine la necessità di distanziamento e cautela nei rapporti interpersonali ci ha fatto diventare un po’ tutti Skin Hunger, affamati di contatti mediati dalla vicinanza e dai nostri cinque sensi, ma soprattutto dal tatto. Che la pelle sia mediatore e veicolo di affetti, emozioni, sentimenti era chiaro a noi dermatologi da qualche decennio, ce lo aveva suggerito un poeta, Paul Valèry, con il celebre aforisma che recita: ”Quel che c’è di più profondo nell’uomo è la sua pelle”, ma con questa nuova esperienza che ha coinvolto la sfera pubblica e intima delle nostre relazioni, abbiamo una certezza in più.

Mariella Fassino
Dermatologa, Torino